Oggi parliamo di Giappone. No, niente che abbia a che vedere con il sushi, anzi, non potremmo essere più lontani dal piatto in questione.
Qualche settimana fa mi sono imbattuta in un articolo condiviso dalla Vegetarian Society inerente proprio al Giappone, cosa che non poteva non attirare la mia attenzione. Credo di averlo detto altrove (forse negli articoli dedicati al veg-sushi), ma quando ero più giovane sono stata una nippofila scatenata. Non che ora non lo sia più, però diciamo che molto del mio entusiasmo ha subito un ridimensionamento negli anni (per fortuna). Nonostante questo, non ho mai smesso di nutrire un grande interesse nei confronti del paese del Sol Levante, e il mio sogno resta quello di visitarlo, prima o poi (magari prima di morire, eh?). Qualora questo sogno si realizzasse, oltre a fare i conti con i tatuaggi che mi impedirebbero l’accesso alle terme, dovrei considerare anche la questione cibo.
Come può un paese che basa la maggior parte della sua tradizione culinaria sul pesce (e molta anche sul maiale) essere veg-friendly?
La risposta è semplice: non lo è.
Per esplicita dichiarazione del capo del movimento vegetariano di cui andremo a parlare a breve, Aya Karasuyama, il Giappone non è granché ben disposto verso vegetariani e vegani. Anzi, a quanto pare i poveretti vengono inquadrati come gente strana che mangia solo insalate (mh, dov’è che l’ho già sentita questa?), che spesso provocano letteralmente il panico nei ristoratori.
La trovata di aprire ristoranti dedicati a qualcuno è anche venuta, ma a quanto pare hanno chiuso più veloci di un battito di ciglia. L’idea migliore, a questo punto, sarebbe implementare delle alternative veg* nei menù dei ristoranti già avviati. Tuttavia, nonostante il Giappone sia il paese al mondo con più ristoranti stellati sulla carta, e nonostante sia largamente diffusa la cucina macrobiotica, le opzioni veg* scarseggiano, soprattutto nei ristoranti tradizionali, dove questa scelta è intenzionale.
Non ci si spiega il perché, dato che il Giappone, religiosamente parlando, per precetti buddisti, possiede una tradizione alimentare anche vegetariana.
Forse hanno paura che i locali si riempiano di gente che ordini solo insalata? O temono uno stuolo di invasati pronti a organizzare sit-in in favore del cruelty-free? E chi lo sa.
Ad ogni modo, quando l’etica e il gusto da soli non bastano a sostenere una causa, ecco che arrivano i soldi, che sono sempre un punto efficace su cui far leva. Com’è risaputo, Tokyo ospiterà le Olimpiadi che si terranno nel 2020, e, naturalmente, sarà un avvenimento che attirerà gente da ogni parte del mondo, compresi vegetariani e vegani. E i loro portafogli.
E’ successo allora che 30 vegetariani giapponesi hanno preso la palla al balzo e si sono riuniti per decidere come convincere i ristoratori di Tokyo a introdurre nei menù qualcosa di papabile anche per i mangianisalata. Lo scopo di questa campagna, che vuole porre l’accento sul vegetarismo e veganismo come scelte salutari, oltre che cruelty-free, è cercare di far modificare il menù di ben 50,000 ristoranti. Se non vogliono farlo per gli abitanti della città, che lo facciano almeno per accontentare i visitatori che accorreranno per l’evento (e che li pagheranno)!
La pensata è stata assolutamente azzeccata e intelligente, a parer mio. Del resto, cosa aspettarsi da un popolo pragmatico come i giapponesi?
I 30 paladini delle insalate hanno a disposizione 5 anni per far ricredere gli chef di Tokyo e spingerli ad apportare qualche piccolo cambiamento tra le loro portate. Ce la faranno i nostri eroi? Staremo a vedere! Io incrocio le dita per loro, augurandomi che, come è cambiata e sta cambiando tuttora l’Europa, riesca a cambiare anche il Giappone.
Gambatte kudasai!
Jikai made! (次回まで!)
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